di Paolo Marasca
La prima cosa è l’odore di gomma consumata e spogliatoio che ci attendeva in fondo al lungo corridoio diretto alla palestra. Si giocava a calcetto lì, tra l’ora di greco antico e quella di filosofia. Io, giocavo in porta e tuffavo il corpo sul terreno duro, colpi secchi che sbattevano lontano le declinazioni di una lingua morta, lo scopo della quale ancora mi sfuggiva.
La seconda sono gli insegnanti. Ne ho avuti di bravi: alcuni sapevano, altri ci sapevano fare. Nessuno, mi pare di ricordare, vantava entrambi i pregi, si trattava di aver fortuna nell’assortimento della squadra. Tra i miei, persino due giovani bellissime donne: un colpo di fortuna.
Poi c’è quella volta che vincemmo le elezioni con una lista di sinistra, nel liceo notoriamente di destra, anzi fascista. Era il segno di un mondo che cambiava, ma solo, è evidente, nelle nostre teste.
In classe, senza cellulari, tablet o pc, la nostra via di fuga era il paesaggio urbano attraverso i finestroni: il parcheggio con le vespe e i ciao, qualche cespuglio, gli attutiti rumori del traffico di fuori. E naturalmente gli intervalli.
Durante i quali passeggiavo assieme al mio migliore amico.
Mi innamoravo.
Sedevo sui gradini assieme alla sola persona il cui nome voglio dire, Daniela, che soprannominavo Fiore. È stata la prima persona cara a scomparirmi, e ad insegnarmi così l’importanza di una lingua morta, che pure resta viva. Avevo sedici anni. Rifarei tutto, tranne questo.
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