17 settembre 2001: il mio primo giorno di scuola al liceo classico Rinaldini. Sembra ieri quando ho varcato per la prima volta la soglia del mio liceo, eppure da quel giorno sono già passati dieci anni, cinque dei quali trascorsi tra quelle mura. È opinione comune che la scuola negli anni del liceo sia determinante per la formazione, la crescita culturale e l’incontro con persone che spesso si rivelano decisive per la nostra vita; tuttavia il Rinaldini per me non è stato solo questo. Oltre ad aver ricevuto un’ottima preparazione in tutti i settori, ad aver incontrato amici tra i più cari e professori che hanno lasciato segni indelebili e che ricordo con stima e affetto, posso dire che dal Rinaldini ho ricevuto qualcosa di molto più prezioso: la possibilità di conoscere meglio le mie attitudini e capire così che quel sogno nascosto nel cassetto era da tirare fuori e da coltivare. Il mio sogno era scrivere, e lo è tuttora. Non ho mai creduto che sarebbe stato facile, e sapevo quanto impegno e determinazione avrei dovuto metterci per poter almeno continuare a sperare di vederlo realizzato. E l’impegno è stata una costante nel mio percorso liceale. Tuttavia scegliere non è mai scontato, nonostante sapessi già cosa mi piaceva studiare. Quando, alla fine delle medie, mi sono trovata a dover decidere quale scuola avrei voluto frequentare negli anni seguenti, non avevo ancora un’idea precisa di cosa avrei voluto fare ‘da grande’. Amavo leggere e adoravo scrivere, queste erano le mie sole certezze. Scelsi così il Liceo Classico, che mi ha offerto comunque la possibilità di sviluppare interessi diversi: attraverso la scelta della sezione P.N.I (piano nazionale informatico) ho potuto bilanciare gli studi umanistici con più matematica, fisica e informatica. Nonostante ciò, o forse grazie a ciò, alla fine del quinquennio non ho avuto più dubbi sulla strada da prendere e mi sono iscritta alla facoltà di Lettere. Infatti, nel corso dell’esperienza liceale ho iniziato ad avvicinarmi più seriamente al mondo della scrittura: spinta anche dai suggerimenti di parenti e insegnanti ho pubblicato un piccolo romanzo di fantasia, Il triangolo delle Bermuda, che avevo scritto senza pretese qualche anno prima e che mi ha incoraggiato a continuare su questo percorso e a credere nelle mie capacità visto il positivo riscontro suscitato nei giovani lettori a cui il libro era destinato. Ma è proprio alla fine del corso di studi triennale universitario che il mio sogno ha cominciato ad acquisire una dimensione più seria. Ho avuto infatti l’opportunità di veder pubblicata la mia tesi Dante e le Marche. Ma il merito non credo sia solo mio: sono convinta infatti che parte del mio successo sia dovuta all’ottima formazione ricevuta da parte degli insegnanti seri e preparati di questa scuola.Per me questa è stata una grandissima soddisfazione, ma la parte più bella e significativa di questa dell’esperienza è stata il poter tornare nella mia vecchia scuola per presentare il mio libro agli studenti. Tornare dopo solo cinque anni dal diploma nell’aula magna, dove ha avuto luogo la conferenza, per sedermi dall’altra parte della lunga scrivania, mi ha fatto provare un tuffo al cuore: davanti ai miei occhi sono passati brevemente alcuni fotogrammi di ricordi riemersi all’improvviso. Quante volte mi ero seduta coi miei compagni per partecipare a un’assemblea d’istituto, quante volte avevo ascoltato le parole di professori e ospiti chiamati per presenziare a qualche conferenza. E ora ero lì, davanti a tanti volti sconosciuti che mi osservavano inizialmente con un’espressione smarrita, che è andata pian piano distendendosi, per aprirsi in sguardi ricchi di attenzione e desiderio di conoscere. E al contempo quei volti sono diventati a me più noti, poiché mi sono resa conto che in fondo era come rivedere me stessa e i miei compagni di un tempo, uniti dalla stessa voglia di saperne un po’ di più.Tale incontro è stato per me entusiasmante e, credo, stimolante per entrambe le parti; i ragazzi si sono infatti dimostrati attenti e interessati agli argomenti trattati, forse anche perché hanno visto in me qualcuno non troppo lontano dal loro mondo: una ragazza appena più grande di loro, da non molto tempo uscita dal medesimo liceo, che muove i primi passi nella realtà degli adulti. Spero di essere riuscita a trasmettere a quei ragazzi l’importanza del credere in un sogno e il valore profondo della cultura, che proprio quella scuola mette loro a disposizione prendendosi cura del futuro dei propri studenti. Per quel che mi riguarda, posso inoltre dire che trovarsi di fronte a una platea di ragazzi che fanno parte della mia ex-scuola, che salgono e scendono le stesse scale che anche io per tanti anni ho percorso, e frequentano quei corridoi e quelle aule a me ancora così familiari nel ricordo, è stato come tornare a casa, anche se i vecchi inquilini non ci sono più. Dopo solo cinque anni tutti gli studenti che erano iscritti al liceo quando ancora frequentavo la scuola non ci sono ormai più, e anche alcuni professori mancano all’appello. Tuttavia, la percezione è che mentre alcune cose sono cambiate, mentre la scuola si trasforma e si arricchisce di innovazioni che la rendono sempre più efficiente e al passo coi tempi, altre cose sono sempre lì, certezze nel mutamento. Forse cambieranno gli occhi, i sorrisi, ma quelle espressioni intelligenti e curiose sui volti dei ragazzi, quell’atmosfera vivace ma attenta nello stesso tempo e quel sentore inconfondibile di classicità che vi si respira sono rimasti. Grazie, Rinaldini.
martedì 25 ottobre 2011
martedì 18 ottobre 2011
Rifarei tutto
di Paolo Marasca
La prima cosa è l’odore di gomma consumata e spogliatoio che ci attendeva in fondo al lungo corridoio diretto alla palestra. Si giocava a calcetto lì, tra l’ora di greco antico e quella di filosofia. Io, giocavo in porta e tuffavo il corpo sul terreno duro, colpi secchi che sbattevano lontano le declinazioni di una lingua morta, lo scopo della quale ancora mi sfuggiva.
La seconda sono gli insegnanti. Ne ho avuti di bravi: alcuni sapevano, altri ci sapevano fare. Nessuno, mi pare di ricordare, vantava entrambi i pregi, si trattava di aver fortuna nell’assortimento della squadra. Tra i miei, persino due giovani bellissime donne: un colpo di fortuna.
Poi c’è quella volta che vincemmo le elezioni con una lista di sinistra, nel liceo notoriamente di destra, anzi fascista. Era il segno di un mondo che cambiava, ma solo, è evidente, nelle nostre teste.
In classe, senza cellulari, tablet o pc, la nostra via di fuga era il paesaggio urbano attraverso i finestroni: il parcheggio con le vespe e i ciao, qualche cespuglio, gli attutiti rumori del traffico di fuori. E naturalmente gli intervalli.
Durante i quali passeggiavo assieme al mio migliore amico.
Mi innamoravo.
Sedevo sui gradini assieme alla sola persona il cui nome voglio dire, Daniela, che soprannominavo Fiore. È stata la prima persona cara a scomparirmi, e ad insegnarmi così l’importanza di una lingua morta, che pure resta viva. Avevo sedici anni. Rifarei tutto, tranne questo.
domenica 16 ottobre 2011
Filippi, la Santoni e la De Luca
di David Favia
Quando ti chiedono un ricordo della tua scuola con la scusa che sei un ex studente diventato “conosciuto“, c’è sotto qualcosa: sei diventato vecchio.
Il “Rinaldini” fa ancora parte di me come non fossero passati 41 anni da quando varcai per la prima volta, il primo ottobre 1970, il portone storico di piazza Roma, “rectius” via Zapata (abbiamo o non abbiamo fatto il Classico, che diamine?!): anzi, quei 5 anni mi sembrano volati e la preparazione ricevuta e le persone che ho conosciuto (e molte ancora ne frequento) fanno ancora parte della mia vita quotidiana, quasi dovessi ogni mattina tornare su quei banchi (e man mano che scrivo vengo assalito da immagini, voci e ricordi e capisco sempre meglio quel capolavoro di Pupi Avati che è stato Una gita scolastica).
Forse anche perché ho continuato a vivere “fisicamente” il “Rinaldini” attraverso le mie tre figlie – dal 2000 fino agli esami di stato 2010/2011 – e loro hanno avuto come compagne e compagni figli di miei compagni di scuola. Poi, continuo a vivere il liceo attraverso altri figli di amici più giovani e per i contatti che ho con la scuola come politico.
Ovviamente, molte cose sono cambiate da allora ma sento che tutti, vecchi e nuovi studenti, subiscono il fascino quasi intatto e immutato del Rinaldini e un forte attaccamento ai “colori sociali“.
Mi fa piacere incentrare questo ricordo su un aneddoto e su dei fatti molto formativi che mi hanno messo in relazione con tre professori “burberi” (ma buoni) dal carattere forte (purtroppo tutti e tre scomparsi): Elio Filippi (educazione fisica), Olga Silvestrelli Santoni (matematica) e Maria Costanza Ferrero De Luca (greco).
Ho sempre amato “fare“, e da giovane ero anche un discreto sportivo, circostanza non poi così ovvia per un liceo come il nostro, in apparenza più propenso a partorire “secchioni”. Ebbene, nei primi anni ’70 vengono indetti i “Giochi della Gioventù“: chiedo a Filippi (col quale, dietro mia insistenza, avevamo inventato le prime settimane bianche) di iscrivere una squadra del Classico ai Giochi della Gioventù di pallavolo. Lui, temendo la catastrofe, rifiuta. Allora, complici Franco Brasili e Filippo Grassia, iscrivo ai Giochi di pallavolo una squadra formata da tutti studenti del “Rinaldini” (alcuni della mia classe) denominata GSC (acronimo che, in modo occulto, significava Gruppo Sportivo Classico). Filippi ci segue da lontano e destino vuole che arriviamo alle finali provinciali. La mattina del giorno in cui, nel pomeriggio, si sarebbero svolte le semifinali, ero a lezione e Filippi entra in classe all’improvviso seguito dal bidello “carico” di una decina di divise con i colori del “Rinaldini” e mi autorizza davanti a tutti a giocare a nome della scuola. Per la cronaca, arrivammo secondi dietro alla mitica “Baby-Dinamis” di Falconara che, composta di quasi tutti giocatori di serie A, vinse i Giochi della Gioventù nazionali. Qualche mese più tardi affrontammo una staffetta 4x100 ai campionati provinciali studenteschi: per la prima volta nella storia del Classico arriviamo in finale. In quarta frazione prendo il testimone per ultimo, quando alzo la testa vedo Filippi in camicia bianca e a braccia larghe che sta in piedi nella mia corsia, oltre il traguardo. Non so come, arriviamo terzi e finisco la mia corsa, mezzo morto, nelle sue braccia.
Ancora oggi mi vengono i brividi e le lacrime agli occhi (anche per quanto erano ruvide quelle divise di lana grezza degli anni ’30).
“La Santoni“: così era chiamata, con confidenziale semplicità.
Alle medie ho avuto una prof. di matematica terribile. Uno dei motivi per cui ho scelto il classico è stato proprio l’odio per la matematica. Convinto che al classico la matematica non contasse, nelle prime settimane del quarto ginnasio non apro libro – fra le altre cose, ignoravo che Carlo Rinaldini fosse un matematico. Ovviamente arriva la prima interrogazione e faccio scena muta. La Santoni mi chiama da parte alla fine dell’ora e mi dice, con la sua calma che non ammetteva repliche: “So che puoi far bene e che forse hai i tuoi motivi per fare quello che hai fatto. Ti do un mese di tempo per metterti alla pari e poi ti interrogo”. Quel gesto di fiducia mi aprì un mondo (forza della pedagogia!): da quel momento ho sempre avuto nove di matematica.
“La De Luca” (e correva il terrore al solo nominarla).
Piemontese d’altri tempi, la Costanza Ferrero viveva con sufficienza il nostro mondo, quasi fosse appena uscita dal Gattopardo. Ogni sua parola era un ordine incontestabile (e nessuno si sognava di contestarlo). All’esame di stato esce greco orale. Ovviamente a nessuno viene in mente di portarlo come prima materia: il che non era il massimo per l’immagine della prof. di greco. Avevo fatto il drammatico errore di vincere, assieme al mio compagno Franco Dolcini, uno dei cinque premi dell’annuale concorso dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) di Siracusa con un lavoro su Le Troiane di Euripide.
Mentre stavo preparando l’orale, avendo già scelto come materie italiano e filosofia, ricevo da Costanza De Luca una telefonata: col suo accento piemontese da colonnello dei Cacciatori delle Alpi mi fa: “Favìa, tu porti greco orale come prima materia, vero?“ “Sì, professoressa”, subito le dico. E la mattina dopo andai a cambiare la scelta.
Fosse possibile tornerei a quei tempi di corsa.
L’unica cosa che mi consola è che questa scuola continuerà a sfornare persone preparate di cui la nostra società ha tanto bisogno. Grazie Carlo (Rinaldini).mercoledì 12 ottobre 2011
Da Franco Amatori
Rinaldini, il liceo ginnasio Rinaldini, è un tempo e un luogo preciso della vita. Non qualcosa di cui dire, vorrei rivivere quegli anni: ci sono entrato che non avevo ancora compiuto 14 anni e ne sono uscito a quasi 19. Non è una bell'età perché non si è trovato ancora il proprio posto nel mondo, non si è in pace con se stesso e con gli altri. Rinaldini è competizione, qualcosa che ti punge, ti mette in discussione-- ero il più bravo della classe alle medie, ora ce ne sono tanti come me e meglio di me. Ma non esageriamo. Rinaldini è anche solidarietà tra compagni di scuola, radice di amicizie che si consolidano e rimangono forti nel tempo lungo fino ad oggi, è risate, risate a crepapelle, è primi amori.
Ma ciò che più resta è aver appreso e soprattutto aver imparato ad apprendere. E qui viene in mente la cultura impegnata di Isabella Saracini, la disincantata umanità di Don Armando Candelaresi, la splendida equanimità di Padre Agostino Giannini, l'esigente acribia di Maria Illuminati, la puntualità filologica di Giuliana Cavezzali, l'affascinante concretezza delle grandi idee spiegate da Mario Bonivento.
E' con questo bagaglio che un provinciale timido e greve, è sopravissuto a Harvard, ha girato per le università europee, e ora è in cattedra alla Bocconi. Tanto che può dire di aver giocato bene le carte buone (non ha avuto solo quelle) che la vita gli ha messo in mano.
Grazie Rinaldini.
martedì 11 ottobre 2011
Ho frequentato il liceo Rinaldini subito dopo mio fratello Cesare, pù grande di me di tre anni. Nel confronto ci rimettevo e i professori mi chiamavano il rovescio della medaglia. E' vero che non ero particolarmente bravo, ma era anche vero che riuscivo meglio in alcune materie come l’italiano, ricevendo il riconoscimento del professor Borioni. Ero uno studente che di solito viene qualificato come intelligente che non si applica, che prende la sufficienza e si accontenta. Durante il pranzo organizzato per i 50 anni della terza liceo mi sono ritrovato coi i vecchi compagni che avevano conservato il soprannome di allora messi da me (Nerone, Cavalletta, Bambi, Pignasecca, eccetera).
Il liceo classico era considerato la miglior scuola per tradizione e fama e, in anni in cui non si conoscevano tanti Master o phd, veniva considerato un punto elevato di eccellenza. Fare il liceo classico poteva apparire un privilegio e se lo studente non andava bene i professori e lo steso preside avevano il provvedimento appropriato: la minaccia a passare al liceo scientifico o alle magistrali. Ricordo i professori, che erano considerati di ampia cultura ed esperienza, i quali preferivano per il ruolo restare al liceo dove necessitava una preparazione di base maggiore. Un altro punto importante rappresentato dalla severità dell’insegnamento, diretto a rendere più funzionale l’ingresso all’Università. Da parte nostra, nonostante l’aiuto di qualche famigliare, si reagiva negativamente alla mole di lavoro che si era tenuti a preparare prima di un’interrogazione. Riconsiderando ora quella situazione, devo riconoscere che la formazione ricevuta al Rinaldini stata senz’altro utile e duratura nel tempo.
Paolo Annibaldi
lunedì 10 ottobre 2011
PIU’ MELATONINA PER TUTTI!
L’austero bidello Biagi – che solo dopo la pensione raggiunse l’età che aveva sempre mostrato – sapeva che non poteva chiudere il portone di Via Zappata se alle ore 8.29 non fosse giunto, di corsa ed ancora in trance, l’ultimo alunno appartenente (orgogliosamente!) alla sezione B.
Ebbene lo confesso…. ero io!
A dispetto (o forse a causa) di una distanza ridotta della abitazione dalla sede del Liceo, era mia abitudine centellinare fino all’ultimo minuto possibile gli istanti di prezioso sonno e poi fiondarmi di corsa (era tutta discesa) e in circa tre minuti raggiungere il fatidico portone e smorzare l’ansia crescente del bidello.
Ovviamente un distacco brusco dal mondo onirico comportava – diciamo con un generoso eufemismo – un ridotto tasso di attenzione nelle prime ore di lezione.
Ma l’intelligente approccio dei professori aveva portato ad un accordo “de facto” per cui prima della terza ora non venivo “disturbato” nella dolorosa fase di transizione dal sonno ad una presenza vigile.
Nella mia carriera successiva da professore universitario ho cercato di ricambiare tale premura verso i miei studenti, per cui ho impartito lezioni e fissato esami solo di pomeriggio in un convinto omaggio a Morfeo.
Ora finalmente scopro, in un articolo pubblicato da una prestigiosa rivista scientifica internazionale, che per favorire apprendimento e sviluppo equilibrato della personalità bisognerebbe che le lezioni nella scuola iniziassero non prima delle 10.00 perché ciò favorirebbe (con il maggior periodo di sonno) lo sviluppo di melatonina, l’ormone regolatore del ciclo sonno-veglia che favorisce crescita e buon umore.
Ecco, giustizia è fatta! C’erano dunque fondate basi fisiologiche per il mio comportamento che non era affatto anomalo e anzi, empiricamente, precedeva la scienza ufficiale.
Allora... più sonno per tutti!
MARCO PACETTI – III B – 1965-66
P.S. Chiederò ai colleghi medici se, visto che continuo ad avere (felicemente) bioritmi analoghi, posso sperare di essere ancora in fase di sviluppo adolescenziale…
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