di Costanza Costanzi
Sembrerà strano, ma la memoria degli anni liceali non evoca in me ricordi di spensieratezza e tanto meno di nostalgia. E questo non a causa di uno scarso profitto scolastico, piuttosto soddisfacente anzi, né per situazioni relazionali complicate – professori, compagni di classe – e meno che mai per problemi concreti, familiari, di salute o altro. Oggi, a ben considerare la cosa, riconosco in quel permanente stato di ansia e di insoddisfazione il segno di un complicato rapporto con me stessa, in quel delicato momento di passaggio, di crisi appunto (per attingere al bagaglio etimologico greco) tra la fine dell’adolescenza all’età ‘quasi’ adulta, consumato tra conflitti interiori, turbamenti, insicurezze, amoretti infelici, vaga insofferenza verso la severa disciplina ‘pre-sessantottina’ ancora vigente: insomma, un repertorio tipico dell’età, in cui dubbi e insicurezze, aggravati da un diffuso senso di inadeguatezza a tutto campo, la facevano da padroni. In questo poco esaltante scenario, accade un episodio, che oggi identifico come causa scatenante (o forse effetto?) di quel travagliato momento.
Risale ai primi mesi del V ginnasio, quando, durante un banalissimo tema in classe, situazione mai temuta, né ansiogena, sono incappata nella peggiore ‘sindrome del foglio bianco’che si possa immaginare. Ricordo con angoscia quel tempo interminabile, totalmente vuoto di idee - e di conseguente scrittura - attanagliata da una paralizzante incapacità di formulare un qualsivoglia pensiero, anche elementare, che avesse una pur minima attinenza con una delle opzioni (ben tre!) proposte. La prof di italiano, Paolina Mezzabotta – una colonna del corpo docente della sezione B del Ginnasio - donna schiva e austera, quanto attenta e sensibile, percepisce e il mio disagio (probabilmente mi stavo già sciogliendo in lacrime), tenta di aiutarmi, spronandomi a scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, che solo somigliasse lontanamente a un tema. Mi suggerisce di fare magari soltanto la semplice prosa della morte di Ermengarda (uno dei titoli riguardava appunto il celebre passo manzoniano). Ma niente, zero, vuoto assoluto. La sofferenza della infelice regina morente dei Franchi sembrava niente in confronto al mio confuso e tormentato stato d’animo, mentre fissavo quel foglio protocollo, beffardo e inviolato. Due ore di angoscia allo stato puro, allo scoccare delle quali, come prevedibile, non avviene il miracolo e consegno il tema in bianco. Non starò a dire quanto tempo (tanto!) mi sono portata dietro la maledetta ‘sindrome’, e di quanta pazienza si sono dovuti armare i miei genitori, nel cercare (inutilmente) di convincermi che non ero quell’idiota incapace, che mi sentivo. Alla squadra familiare schierata contro la totale perdita di autostima che mi affliggeva, si è affiancata per un certo, determinante periodo anche la bravissima Marisa Saracinelli, a cui devo molta gratitudine per avermi aiutato a superare, da insegnante seria e preparata, quel buio momento della mia vita di studente.
Non so se oggi ho davvero radicalmente risolto il problema, ma di certo, mai avrei immaginato, allora, che da quell’incubo giovanile, per una misteriosa e imprevedibile legge del contrappasso, la mia attività professionale passata e presente si sarebbe in buona parte concentrata sullo scrivere. Sarà un caso emblematico di quella “eterogenesi dei fini”, di cui parlava già il filosofo Giovan Battista Vico?
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